Zattini - l'enigma della visione - Onorio Bravi

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Testi Critici
L’enigma della visione
di Marisa Zattini

«Non sapere di sé vuol dire vivere. Sapere poco di sé vuol dire pensare. Sapere di sé, all’improvviso [...] vuol dire avere subitamente la nozione della monade intima, della parola magica dell’anima»
(Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine)

Lo spazio della tela, per il pittore, è di fatto l’evidenza del suo “dove”. È un “altrove” apparentemente oggettivato. Ma non si tratta di quello “spazio” di cui ci parla Merleau-Ponty,
perché questo ricreato dall’Artista - ri-trovato - è un luogo denso di nascondigli. Nel dipinto, infatti, l’immagine non può giacere mai assoluta in sé perché è specchio mutante di noi stessi, “i riguardanti”. Dunque il dipinto, pur nella sua concreta e oggettiva sostanza - di fatto lo foto-grafiamo, quindi lo “immortaliamo” proprio così come crediamo che tutti lo vedano - è invece metamorfico, possiede per così dire corpi proiettivi sottili e instabili. È polimorfo. Quasi fosse metafora ed emblema in espansione.
La pittura di Onorio Bravi è avventura di profonde emozioni. Non è «mistero di passività» (M. Ponty). Essa attiva una catena infinita di reazioni, accarezza un’infinità di corpi sottili. Come un sasso lanciato basso sul pelo dell’acqua “saltella” creando cerchi in sequenza, essa stimola lo spazio che la circonda, come onde brevi, crea delle connessioni, elimina ogni distanza - per chi si lascia coinvolgere proiettiva- mente - e attua una modificazione in noi.
La visione immaginativa genera così un intero universo. Io che scrivo, che ho scelto di occuparmi di “critica d’arte” sono di fatto sempre disposta agli attraversamenti di visione. Vivo negli incantamenti per nuove incantagioni. Sono disposta ad occuparmi delle meraviglie, delle “eccedenze” e dei diversificati spessori di senso che ogni artista è capace di offrire, differentemente. E mentre scrivo spero di offrire, a mia volta, ulteriori occasioni di dilatazione emotiva.

L’arte è sempre enigma. Cézanne scriveva che «il colore è il luogo dove si incontrano il nostro cervello e l’universo». Io penso che essendo la pittura più un crogiuolo di emozioni, i colori finiscono per condurci più vicino ai territori del cuore che a quelli del cervello, sicuramente in sintonia con le armonie dell’universo.
L’arte è un’avventura della mente, della forma e dello sguardo. È cosa sacra. Esistono contraccolpi formidabili nelle inquietudini dei nostri linguaggi che segnano epoche e stagioni. Esse si dispiegano al nostro sguardo concedendosi pienamente. Il caso non esiste. Tutto ha una sua necessità di accadimento. Lo stupore è la manifestazione evidente - con l’emozione che l’accompagna - dell’autenticità dell’opera che lo genera. L’essenza della cosa - così come di ogni bellezza - non sta nella forma esteriore ma nelle potenzialità del suo “interno” e delle relazioni che suscita, nel nocciolo che genera emozione.
Janus ha definito Onorio Bravi come «un seminatore di emozioni».



Equivalenza bellissima, metafora suggestiva. Uno che legge queste parole, se lo immagina proprio Onorio, affaccendato nei campi appena arati che circondano la sua casa e il suo studio a San Zaccaria, mentre alla luce dell’alba o all’imbrunire distribuisce a piene mani semi fertili nella sua terra umida e fresca... Sì, perché come sosteneva Apollinaire, ci sono opere - lui parlava di poemi e di frasi - che sembrano non essere state create ma essersi “formate” spontaneamente. Ecco allora che siamo testimoni di come l’opera crei intervalli, pause creative di esistenza. Di fatto, noi percepiamo solo una piccolissima parte della sua profonda bellezza, come ci accade con il resto del mondo così detto “reale”. Respiriamo con gli occhi le esalazioni di bellezza che il dipinto - quale moltiplicatore infinito di suggestioni e di emozioni - ci offre. Bergson parlava di «serpeggiamenti individuali». Ecco allora che l’artista opera diversificati “risvegliamenti”, consci e inconsci, dando inizio alle danze della nostra kundalini. Ovviamente, se solo noi siamo disposti a rispondere al richiamo di quel “retro-mondo” infinito che l’arte è capace di offrirci.
Regressione e tempo. Deliberatamente talvolta omettiamo alcune sto- rie, lacerti della nostra fantasia. Tessere di vita e di sogno che non vogliamo ricordare e testimoniare. Rimozioni che restano così impigliate negli assorbimenti delle trame del tempo. La nostra complessità può spaventarci. Perversamente ci costringiamo nei recinti del reale dimenticando le straordinarie virtù del sogno che l’arte dispiega alla nostra vita. Uspenski afferma che il futuro è preesistente al presente e che è da esso che scorre «il fiume assoluto del tempo cosmico». E a ben pensare anche i teologi definiscono l’eternità come simultaneità. Anche Dunne, parlando di sogni premonitori, giunge alla stessa conclusione quando afferma che nei sogni confluiscono il passato immediato e l’immediato futuro. E amplia ancor più il discorso nell’affrontare la morte, vedendo in essa l’attimo dell’apprendimento dell’uso felice dell’eternità. Il dipinto riequilibria, così, le indifferenze. Crea una sorta di contatto nutritivo. Magicamente ci accorgiamo che l’opera d’arte mantiene aperto “l’istante creativo”, reagisce e contrasta la spinta del tempo che richiude ogni passaggio, operando uno sconfinamento temporale. Ecco allora che «l’occhio va inteso come “la finestra dell’anima”» (M. Ponty). Empaticamente, allora, possiamo abbandonarci alla visione di queste immaginifiche proiezioni che la pittura di Onorio Bravi ci offre, fra rispecchiamenti e smottamenti, in subsidenze dell’anima. E forse, in convergenze e diversioni emotive, ritrovare un gradiente zero che ci con- senta di riemergere in densità di senso e in fertilità di bellezza. Perché la formula ontologica della vera pittura la ritroviamo, credo, concentrata nelle parole di Klee, incise sulla sua tomba: «Io sono inafferrabile nell’immanenza»

Marisa Zattini


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