Pier Guido Raggini - Onorio Bravi

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Testi Critici
«Di là da ciò che vedo e ciò che penso»
Profilo per una biografia 
di Pier Guido Raggini

Limpido e fresco il sole del pomeriggio illumina la campagna, questa pianura bizantina che dilaga là verso l’orizzonte, verso la pineta di Classe, verso la pianura della “dolce
morta”. La strada, tortuosa, serpeggia accarezzando i campi brillanti di verde, lungo fossi appena gorgoglianti e terre già seminate. Un trattore borbotta, lento e curioso e cigolando si allontana adagio, trainando il suo carro arrugginito carico di legna. Di fronte alla casa, accanto al muretto di confine, un albero giovane di ciliegio esplode nei suoi fiori bianchi e vellutati, fragili alla brezza che sa già di mare e del vapore di nebbia da poco evaporata nel cielo di madreperla. La Primavera, appena sbocciata, scandisce i giorni intensi della Settimana Santa.

Venerdì Santo è questo che scorre, ora, nel ricordo remoto di un uguale e lontano 6 Aprile del 1327 quando Francesco incrociò lo sguardo di Laura nella chiesa di Santa Chiara durante la liturgia della Croce. E fu amore per sempre. Dolce, querulo e lancinante.
E sempre il 6 Aprile, di un secolo fa, alla vigilia di una Pasqua bolognese, Giovanni chiudeva gli occhi per sempre sul limitare della vertigine dell’Universo. E fu definitivamente svelato il Mistero. In questo 6 Aprile, Venerdì Santo dell’anno in corso, si squaderna al nostro sguardo lo studio di Onorio. Le stanze linde, ordinate, che sanno d’inchiostro e di colori, di olio, di legno e di tela sono l’officina dell’artista, la bottega dell’arte. È qui, in questo luogo sospeso tra realtà e fantasia, che tra sogni ed inconscio ascoltiamo la voce e i ricordi dell’artista.

Che cosa resta, Onorio, nella memoria dei tuoi primi anni trascorsi a Portico e San Benedetto?

Ricordi bellissimi. A Portico e San Benedetto sono rimasto i primi otto anni della mia vita. Da lì è iniziato, forse, il mio percorso artistico. Mio padre Francesco era di Santa Sofia e mia madre Maria di Bertinoro. Abitavamo vicino al paese. All’epoca avevo due sorelle: Gabriella e Antonella; Anna, la terza, era già morta. Rivedo le tante case minuscole e modeste disseminate sulle montagne e il viottolo stretto che conduceva alla nostra abitazione. Ai lati e nei campi tutto intorno, i ciliegi bellissimi. In estate osservavo, stupito, un pittore, con il suo cavalletto e la sua cassetta dei colori. Con mia sorella Gabriella, lo ammiravamo estasiati per interi pomeriggi. Guardavamo come i suoi occhi contemplavano e si perdevano nella natura. Non ricordo più il nome di quel pittore. Ho rimosso il suo nome. Agli occhi di noi bambini sembrava piuttosto attempato, vecchio. In realtà, forse, aveva quarant’anni. Quel pittore osservava attento il paesaggio e indicava con meraviglia, a me e a mia sorella, quello che fissava. Ricordo ancora la sua scatola di colori, i pennelli, gli stracci che usava per realizzare la sua arte. Un particolare, questo, un aneddoto di cui non ho mai parlato. Ora posso dire che quel lontano incontro mi ha davvero segnato.

A quando risale, invece, il tuo insediamento nella pianura ravennate?

Quando avevo otto anni i miei genitori decisero di lasciare l’Appennino e scendere a valle. Il luogo scelto fu qui, a San Zaccaria, dove ci siamo trasferiti e qui sono rimasto fino ad oggi. Certo il profilo ed i colori delle montagne sono rimasti impressi nei miei occhi. Come il corso sinuoso del fiume, il senso di desolazione, di solitudine... la densità del silenzio. Qui ho cominciato a familiarizzare con un paesaggio diverso, piatto, disteso. Sull’Appennino i colori delle stagioni erano, forse, più intriganti. L’Estate, illuminata e segnata dai pochi campi di grano. I gialli, le ocre si vedevano in lontananza per mutare poi tonalità durante il corso dei mesi. Questi dilatati spazi di pianura sono, invece, la eco di sogni e di visioni che mutano solo di colore attraverso un dilagare infinito e lontano.

Quando nasce in te la decisione di intraprendere uno studio e una attività artistica?

Dal punto di vista scolastico sono stato indirizzato e ho affrontato studi tecnici, ma mi accompagnava la passione per il colore, per la pittura che coltivavo da solo. Poi, a metà degli anni Settanta, ho incontrato Giovanni Strada, un artista ravennate protagonista della Mail Art, oggi impegnato in esperienze e performance che lo portano in giro per il mondo. Questo incontro mi ha coinvolto, mi ha calamitato così ho deciso di dedicarmi all’arte. Mi ha portato a concretizzare un interesse eclettico latente. L’attività creativa di Strada coinvolgeva scultura, mosaico, pittura così ho cominciato a collaborare con lui. In questo modo vedevo realizzarsi i ricordi che portavo dentro, gli antichi interessi. Durante l’adolescenza, è vero, avevo sempre continuato a disegnare, a dipingere, ma in modo riservato, diverso. A metà degli anni Ottanta un altro incontro fortunato mi ha permesso di approfondire altri aspetti del mondo artistico. L’incontro con Guerriero Cortini, incisore forlivese, purtroppo scomparso prematuramente. È lui che mi ha consentito di entrare nei segreti della sua arte, di apprendere i primi rudimenti dell’incisione che poi ho approfondito all’Accademia di Belle Arti di Ravenna con Matteo Accarino, il mio professore. Ora l’incisione è una delle espressioni artistiche che più mi coinvolge e che continuo a praticare con interesse, assiduità e devo confessare, con soddisfazione.



Un momento importante nella tua formazione culturale ed artistica è sicuramente stato il soggiorno, professionale e creativo, in Algeria. Come lo puoi evocare e sintetizzare?

Alla metà degli anni Ottanta, precisamente al 1984, risale il soggiorno di alcuni mesi in quel paese. Mi ero trasferito là per motivi professionali. Ci fu questa opportunità, come tecnico nella lavorazione del settore acciaio dell’azienda presso la quale prestavo la mia attività. Così andai in Algeria e lì rimasi affascinato in primis dalle strutture. Tutto era sbalorditivo: i paesi scarni, le strutture, i colori... Là ho realizzato una serie di dipinti, che ancora conservo, e che ho avuto l’opportunità di esporre pubblicamente presso gli spazi di un ufficio postale di Algeri. Un’esperienza indimenticabile. Ero colpito dalle strutture, dagli edifici suggestivi e magici che si vedevano profilare sotto le luci speciali di ogni ora del giorno. I tramonti memorabili. Impressionanti e suggestivi erano ai miei occhi i tagli e le linee che definivano e rimodellavano gli edifici e poi quei suoni, i rumori, i colori delle città e dei paesi. Ricordo, inconfondibili e uniche, le geometrie di Algeri, di Orano, le linee dei monti e dei luoghi che ho attraversato.
Sono rimasto affascinato da quell’universo incontrato per caso nella mia vita, da quel mondo che continuo ancora a portarmi dentro e che riaffiora, a distanza di tempo, nelle mie opere, sia grafiche che pittoriche. Le visioni remote di un’Africa rivissuta nel ricordo, nella memoria, come emozioni, quasi sorgivamente.

A quale periodo risale la tua frequentazione dell’Accademia?

Avevo trent’anni quando ho intrapreso questi studi. All’Accademia ho sviluppato rapporti di amicizia duratura, di scambi culturali con maestri con i quali i legami durano tutt’ora. Attraverso uno scambio continuo di opinioni e di idee. Accanto alla figura e al magistero di Matteo Accarino e Koki Fregni - docente di scenotecnica e modellistica - ricordo Vittorio D’Augusta, mio insegnante di tecniche pittoriche, che tanto mi ha arricchito sul piano culturale e artistico. Un’altra figura che non posso dimenticare è quella di Radu Dragomirescu, artista rumeno, docente di pittura negli anni delll’Accademia a Ravenna. Lui, aveva una formazione di docente e di artista tipica della cultura dei paesi dell’Est, molto analitica e approfondita. Una cultura che abbracciava settori diversissimi. Ricordo ancora il suo carattere un po’ burbero, ma estremamente formativo. Avevo scelto di seguire i corsi dell’Accademia con l’obiettivo di riorganizzare, sistemare e approfondire una preparazione culturale ed artistica che completasse la mia ricerca e l’attività, intraprese in questo settore.

Quali radici hanno le tue scelte nella preferenza di un linguaggio e di una tecnica particolare?

Già dai tempi della frequentazione con Giovanni Strada, i miei interessi erano numerosi e spaziavano in diverse direzioni. La scultura era un linguaggio che mi coinvolgeva per quella sua concreta manualità. Prediligevo sopratutto il ferro e l’acciaio con i quali ho realizzato diverse opere che ancora conservo. Non avevo ancora chiaro, però, una linea di percorso unitario, omogeneo. Alla definizione della mia scelta artistica hanno contribuito anche altri incontri. A Forlì ho frequentato il mondo dell’arte locale: Guerriero Cortini, Claudio Pantieri, Vito Monta- nari e tanti altri. All’inizio degli anni Novanta ho conosciuto artisti del- l’area ravennate, Giuliano Giuliani, Giovanni Fabbri e Vittorio Lelli, con i quali ho dato vita al “Gruppo degli Artisti dell’Erbosa”. Una bella esperienza, un’occasione di scambio di vedute con artisti e appassionati d’arte della Romagna, cesenati, forlivesi e ravennati. Insieme ab- biamo sviluppato e approfondito sempre più il linguaggio della pittura. Ricordo di questo tempo l’apporto formativo di Giulio Ruffini, pittore ravennate recentemente scomparso, e di Chico Verlicchi. Insieme si lavorava soprattutto dipingendo dal vero ed esercitandoci con il disegno e la pittura di nudo. Insomma: si respirava il clima culturale ravennate di quel tempo.

Da questi fondamenti, allora, quale potrebbe essere la tua peculiarità, la tua cifra stilistica?

Non mi riconosco in una sola e unica formazione. Ho attinto da molte suggestioni, da tante cose. Non rientro certamente in un “filone unico”. Non mi riconosco allievo di un solo maestro... anche se ciascuno di quelli che ho avuto mi ha lasciato qualcosa. Credo di potermi definire un “naturalista visionario”... un “espressionista romantico”.
La mia espressività credo sia evidente sia nell’uso dei cromatismi della mia pittura, nel graffio dell’incisione, in quella forza della xilografia fatta di contrasti pieni, senza mezze tinte...

A che cosa alludi?

All’esperienza trasversale nell’ambito della scenografia. Circa a metà degli anni Novanta sono stato impegnato, per un decennio, con il gruppo di “carristi” di Massa Forese di Ravenna, nell’allestimento di carri allegorici. Curavo le scenografie. Una bella fucina, quella, una stimolante avventura ricca sia per i rapporti umani che per le suggestioni immaginative. Un’esperienza che sicuramente mi ha aiutato anche nella crescita artistica. Ho imparato a non improvvisare mai, ad avere una disciplina progettuale. I miei lavori nascono sempre da un progetto ben preciso, da un’idea che amo trasporre in disegno anche se poi, quando dipingo, seguo la mia ispirazione. È la pittura che chiama... Amo lavorare per “cicli”. Sviluppo le mie riflessioni, quella narrazione visionaria attraverso nuclei tematici ben strutturati, usando le tecniche più varie: pittura, incisione, scultura, mosaico.

Il tuo ambiente di vita, il paesaggio della pianura nel quale vivi ed operi che cosa ti porta, come ti stimola, come ti condiziona nel tuo vedere e leggere la realtà quotidiana?

Questo luogo nel quale vivo oramai da anni mi ha aiutato a ritrovare una dimensione più completa. È il luogo ideale per vivere nella “mescolanza” delle cose, fra le atmosfere della pittura che mi caratterizzava negli anni Novanta, vissuta in quella dimensione carica di tonalità esasperate, terrose, nebbiose, un po’ notturne. Allora, ricordo, mi ero fatto prendere da quel clima del paesaggio che diventava un sentire interiore e pittorico. Da quelle atmosfere nebbiose mi sono poi liberato, aiutato anche dall’esperienza breve ma intensa dell’Algeria e dal ricordo vivo e forte dei luoghi della mia infanzia.

Tema costante della tua ricerca artistica è il paesaggio come figurazione dell’ambiente, figurazione dell’anima e dell’inconscio.

In questo ultimo decennio i miei lavori sviluppano e rappresentano più un luogo fantastico, i luoghi dell’Anima. Sono paesaggi del mio immaginario, del mio fantasticare; di quel riguardare sempre dentro di me. Sono spazi abitati da geometrie, da architetture immaginifiche, da case, da torri, da edifici che sembrano escludere l’uomo da ciò che avviene dentro. Ma l’uomo, anche quando non è rappresentato, è sempre presente. La mia condizione, espressa in quei volumi che si fanno colore, vuole essere anche quella dell’osservatore, di colui che vuole scrutare, indagare, spiare per scoprire ciò che accade “oltre”.

La figura umana, rappresentata in quei paesaggi o colta nei ritratti, è forse una presenza oltre il tempo?

I miei uomini sono il profilo di una speranza, o di una richiesta, di un qualcosa che vuole andare oltre il momento attuale, contingente. Anche se mi rendo conto che talvolta, soprattutto i ritratti, possono sembrare un po’ inquietanti. Sicuramente sono uno scavo, una ricerca, una mia necessità interiore quasi ossessiva. Nei paesaggi tutto si stempera un po’, il colore mitiga tutto. È in fondo la ricerca di un mondo diverso, la trasposizione simbolica di un uomo, talora avviato verso un approdo in- certo, eppure sognato e rivissuto nel mio mondo immaginario.

Le tue figure che non appaiono mai come chiaramente descritte, ma come massa di volumi e respiro di colori, alludono forse alla condizione umana?

La condizione umana a cui io alludo è libera da condizionamenti, non costretta entro confini limitati, ma aperta ad un’esistenza migliore, quasi primigenia.

La ricerca, che conduci intorno al soggetto del volto e del ritratto, produce all’osservatore l’effetto di vedere vanificato ogni elemento fisiognomico a vantaggio di un ritratto onirico, condividi questa impressione?

I volti rappresentati non sono volutamente descrittivi: sono una sorta di profilo onirico. Sono ritratti che attendono, nella loro frontalità, che qualcosa accada. Sono visi, paesaggi dell’anima un po’ evanescenti. Frammenti, in fondo, di un unico grande ritratto. Un autoritratto, forse, reiterato, un paesaggio della mia anima...

Nella tua produzione artistica, l’osservatore può forse intravvedere un legame, un interesse, una sintonia con una creatività ancestrale, arcaica, primitiva per quanto concerne le componenti degli elementi e lo stupore delle tonalità cromatiche?

Il mondo arcaico e primitivo mi appassiona, da sempre. Tutto quello che c’è stato prima di noi credo si imprima nella nostra memoria in- conscia per poi riemergere nell’arte. La visionarietà di alcune opere, di certi paesaggi, può effettivamente suggerire quello che dici tu. A questo contribuiscono i cromatismi terrosi che rispecchiano anche il mio mondo intimo. Emozione e stupore per un cielo, un’architettura, un incontro, un legame, un paesaggio...

Due caratteristiche appaiono dallo spartito delle tue composizioni: l’uso di certi colori forti e marcati - i viola, i blu, i rossi fino al giallo squillante ed esplosivo - e il segno, il graffio che incide la materia cromatica, come un grido afono.

Il “graffio” mi appartiene: in esso ritrovo la risposta al bisogno di penetrare le forme rappresentate, mentre nella pittura posso anche “accarezzarle” con i cromatismi forti del colore. Il segno, il graffio che incide la lastra è come la linea nel graffito. È il richiamo ad una impronta antica, è traccia evidente nel racconto dell’immagine proposta. Elemento che affonda nelle profondità e che riemerge da spazi sconosciuti. L’altra partitura appartiene agli accenti forti, alla trasposizione dei ricordi nei cromatismi di sapore africano, in quelle totalità calde di un sentire forte e acceso.

Qual è il tuo rapporto con la realtà metafisica, con il Mistero, con l’Oltre, con Dio, dal momento che la tua arte esprime una necessità di vedere, di scoprire? I tuoi personaggi attendono di fronte al Mistero e alla vertigine che si prova al cospetto dell’universo?

Sono religioso, sono un cattolico. Credo in un qualcosa di superiore. Il mistero della vita ci fa riflettere da sempre su queste problematiche. Che cosa ci attende non possiamo saperlo... Questa tensione me la porto dentro, la trasferisco anche nei miei lavori: le “sagome d’uomini” sembrano aspettare qualcosa che forse non arriverà mai.
La mia ricerca interiore è tutta qui contenuta. Nella progettazione dei miei cicli pittorici, ricorrendo all’incisione o al colore sulla tela, avverto questa tensione. Lavoro contemporaneamente a numerosi pezzi - anche dieci per volta - come ad un insieme, in una orchestrazione ideale. Passo dall’incisione alla pittura, dalla xilografia al disegno, nello stesso momento. Così tutto si contamina e cresce. L’“altrove” si incontra quando meno te lo aspetti. Nell’arte ricreo il mio mondo e mi ci ritrovo pienamente. È una specie di trance. L’artista è davvero un privilegiato, un medium che percorre altre vie...

Nella pratica e nell’esercizio della tua attività di ricerca, nel cercare di svelare i tuoi enigmi, nella decifrazione quotidiana dei tuoi “Idola”, che cos’è l’arte per Onorio Bravi?

L’arte per me è bellezza in senso proprio. È la bellezza in assoluto. È la possibilità di vivere altri mondi. È un aiuto a stare meglio interiormente, a vivere meglio la nostra vita. È specchio e mistero. Penso non ci siano canoni prestabiliti per definire la bellezza e l’arte. Diversamente sarebbe svelato il mistero.
La bellezza è un punto di luce in attesa di essere compreso e svelato, senza la tensione ossessiva di inseguire il tempo e le mode. L’arte è la bellezza al di là del tempo, oltre il confine e il limite della nostra esistenza.

Qual è la responsabilità e la testimonianza che un artista deve assumere oggi, secondo te?

Credo che l’artista debba essere sempre e incondizionatamente limpido, vero ed autentico. Non può seguire stagioni e mode effimere. Deve essere etico, guardare nella profondità di se stesso, ricercare la propria identità specchiandosi nella diversità dell’altro. Il viaggio che conduce a quell’oltre, inizia sempre dentro di noi.

Qual è, secondo Onorio Bravi, il messaggio che un artista, un pittore può offrire oggi a questo tempo così disorientato, frantumato, incerto, confuso?

Penso che siamo, nonostante tutto, nel sentiero e nella speranza di un andare avanti “positivo”. Penso che gli artisti, i poeti, i musicisti, i pittori, così come tutti gli altri uomini, possano contribuire con il loro lavoro e la loro ricerca a far sì che la società migliori. Ritengo che gli artisti siano il sale della terra, il sale della nostra società.
Monsignor Pietro Sambi ha definito l’arte come l’VIII sacramento. E Kandinskij sosteneva che l’arte fosse un risarcimento spirituale per l’uomo. Credo che tutto questo sia vero. Non si può vivere senza l’arte, così come non si può non godere del privilegio naturale di donare e di fruire delle forme dell’ingegno e della creatività umana.
Solo attraverso quest’esperienza passa l’anelito di libertà e di felicità.

San Zaccaria (Ravenna), 6 Aprile 2012



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