Nicola Micieli - Onorio Bravi

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Testi Critici
Teatro di sensazioni emozioni memorie proiezioni, la pittura 
di Nicola Micieli

Intanto l’abitudine di contrassegnare i dipinti e le incisioni non con un titolo evocativo o denotativo che sia, ma con un numero progressivo e la data di esecuzione, preceduti dalla sigla MC. In uno scritto del 2004, vero e proprio manifesto di poetica, Onorio Bravi scioglieva il significato della sigla, acronimo di “Momenti Contingenti”. Come dire istantanee o, per usare un paradosso in forma di ossimoro, monumenti all’hic et nunc, che è per definizione uno stato provvisorio dell’essere. Analogamente, l’opera è per Bravi invariabilmente il documento di una situazione transitoria della psiche, inestricabile intreccio di sensi, cuore e mente. Un “momento contingente” che fa storia a sé ed è, in certo senso, totalizzante nella sua singolarità. Ciò a prescindere dalla tipologia figurale e dagli impliciti soggetti delle opere, se così possiamo esprimerci nel caso di un artista le cui visioni non sono identificabili sul piano dei contenuti riepilogabili in un soggetto.
I momenti contingenti di Bravi sono determinazioni creative non prevedibili, innescate da frizioni tra le occasioni esterne e le disposizioni di spirito dell’artista, componenti entrambe estremamente mutevoli. Le situazioni in gioco mai si ripresentano uguali né si collocano in una sequenza - per quanto tutte si richiamino per rilevabili analogie - che le renda in qualche modo “necessarie” perché conseguenti. C’è una preterintenzionalità, insomma, nell’atto creativo, e non la chiamo pulsione per non ingenerare equivoci psicoanalitici. Nel senso di una lettura freudiana che sarebbe fuorviante, nel caso di un linguaggio pittorico e di un mondo poetico le cui manifestazioni e funzioni simboliche rimandano a valori primari sia dell’espressione che del significato. Dunque semmai ad archetipi junghiani, non agli automatismi indotti dalle oscure circolazioni e dagli attriti che si verificano nell’inconscio, materia per onirici deflussi e surreali invenzioni.



Per significare l’unicità dell’atto creativo e dell’opera, e in fondo la loro intraducibilità didascalica nella sintesi verbale di un titolo, Onorio Bravi ha ormai stabilmente adottato il suddetto codice di registrazione che diremmo da inventario. La formula sembra prelevata dal repertorio delle dizioni in uso, tra anni Cinquanta e Sessanta, presso gli “operatori” analitici delle pure forme: gli astratto- concreti, gli optical-cinetici e altri. Si tratta di autori per i quali vigeva la prescrizione dell’impersonalità, sia del linguaggio che del “pro- dotto” estetico. È bene ricordarlo perché quel distanziatore formale lasciava presupporre anche una sorta di schermatura della sfera affettiva del ricettore, onde ridurne al minimo il coinvolgimento. Il gioco, in sostanza, doveva riguardare soprattutto il funzionamento dei meccanismi percettivi, e conseguenti elaborazioni mentali scevre, se possibile, da ricadute psicologiche ed emotive. Proprio il contrario di quel che accade in Onorio Bravi, il cui immaginario non si attiva se non si verifica un cortocircuito sensitivo - diciamola pure mallarmeana “illuminazione” - che si ripercuote nel profondo, lo sommuove e ne fa venire a galla sensazioni sommerse e memorie sempre cariche di potenziale emotivo. Nel catalogo di una mostra personale dello scorso anno intitolata appunto Momenti Contingenti, nel suo testo ricco di intuizioni critiche aderenti al modo e al senso della pittura di Bravi, per definire l’artista Janus introduceva la felice metafora del “seminatore di emozioni”. Immagine quanto mai pertinente ed evocativa, questa che suggerisce a un tempo l’idea della profusione di inserti figurali e del fervore sensitivo ed evocativo che attiva. Non a caso è stata adottata quale insegna della presente raccolta di opere recenti, nelle quali Bravi conferma la natura sostanzialmente psicodinamica del proprio processo creativo, proliferante e inseminativo nel senso che germina per endogenesi e mira a suscitare catene associative nell’altrui immaginario. Ho l’impressione che Bravi sia pittore naturaliter - intendo preterintenzionale, appunto - abbandonato al flusso visionario. La qual cosa non equivale a dire che gli sia estraneo il governo delle partiture, che pur trovate, come pare evidente, alla prima o almeno con un minimo margine concesso alle mediazioni, alle riprese e alle modifiche in corso d’opera, comunque possiedono una organicità di struttura che occorre aver interiorizzato e operativamente assimilato, per essere in grado di guadagnarla suggerendo un approdo da deriva. A quella organicità si deve l’ambivalenza degli impianti di Bravi, che pur di membratura poderosa e di salda articolazione, paiono insidiati da una subsidenza, un movimento sotterraneo che li scuote e li deforma, sovente a un grado tale da minacciare di sfaldarli e farli precipitare nell’informe.
Incline per disposizione dell’animo, ma ormai abito mentale, alle sollecitazioni interiori e alle poetiche dilatazioni, Onorio Bravi agisce in un’area dell’espressione, ancor prima che dei procedimenti forma- tori e della rappresentazione, nella quale non è dato circolare al lume di una qualche logica lineare e conseguente, sia pure dai nessi semplificati. Chi cercasse il bandolo della matassa da dipanare, il filo di Arianna per affrontare il labirinto delle sue immagini che appaiono, dicevamo, come investite e distorte da un sismo, scoprirebbe che egli è un irriducibile provocatore di depistaggi e frastorna- menti dei sensi e della mente. Tutt’altro, dunque, dall’attrezzato fornitore di patterns pur formalmente affinati, idonei a esercitazioni estetiche programmabili e destinati a una fruizione esente da sorprese e incidenti di percorso.



Nel loro magmatico conformarsi per masse d’una certa consistenza plastica, che nel loro collidere e incastrarsi sprigionano una potenza tellurica, le partiture pittoriche di Bravi appaiono ambienti ovvero scene nelle quali sembra sia in atto una sorta di psicodramma, tale perché in ogni caso, anche quando mancassero indizi della sua presenza, vi è implicato l’uomo. Si assiste a un’azione drammatica elementare, nel senso di incentrata su empiti e motivazioni primarie. Come può essere, per fare un esempio, l’istinto della fuga che impegna una o più guizzanti figure. O quello del rintanamento in un ricetto della terra (caverna o ventre della Tellus Mater in configurazione anche vegetale) o della fabbrica umana. È in ogni caso la soglia tra il fuori e il dentro, tra due estensioni fisiche del mondo, ma anche il limen tra il qui e l’oltre da attraversare per la discesa ultramondana. Oppure, ancora, un’azione collettiva di intuitiva valenza antropologica, un dono una danza una caccia un gioco una sfilata processionale, insomma una manifestazione tribale di implicita ritualità e, forse, la sua parte ispirata a un residuale animismo.
La scena è immersa in climi per lo più vespertini, se non decisamente ombrosi sino alla tenebra attraversata da bagliori corruschi. A questi spazi proiettivi imprimono tensione drammatica, e una spettacolarità piuttosto barbarica che edulcorata, i contrasti in controluce dei prediletti tramonti sui profili delle colline o delle case. Contribuisce inoltre l’illuminazione diffusa dei primi piani, spesso concepiti in contro- luce rovesciata, diremmo, rispetto agli orizzonti e agli sfondi tenuti sulle note basse e terrose della scala cromatica. Incidono infine le luci puntate a fascio su particolari focali o significativi della scena, per esempio una porta, una finestra, un antro, una specola di fuga o di transito, come osservavo, nella tarsia non di rado come cloisonnée del fondale. E in forma di tarsia persino ornata Bravi talora conce- pisce il fondale, quando tende a invadere l’intera scena con paramenti di case profilate dal controluce o in teorie di alveoli o celle o imprecisate specole, appunto, dalle quali la luce promana come da una vetrata.
Segnalerei infine il cromatismo accentuato, sovente in tonalità dissonante, e la particolare luminosità di singoli elementi costitutivi della scena. Può essere un albero diramato spoglio di fronde o una figura marcata di verde, di rosso, più spesso di azzurro malachite, o meglio l’impronta segnaletica, se non addirittura il graffito sintetico da santuario neolitico di un albero o di una figura. Dislocate in funzione scenotecnica nello spazio organico della partitura, siffatte presenze prive di tratti identitari vorrei dirle totemiche per come si ergono e stanno silenziose a presiedere un luogo della natura variamente segnato dall’uomo. Segnato, ma non sempre consacrato ovvero rispettato dall’invadenza della fabbrica umana, sembra dirci Bravi che prefigura nella pittura una sorta di ritrovato primordio, come ad esorcizzare la dissipazione della corrispondenza - non arcadica, non edenica, ma fisiologica e dunque di molteplice e diverso respiro - tra l’uomo e la natura.
Per questa ragione gli atti che si verificano e le presenze che abita- no queste scene, assumono anche una loro indubbia connotazione simbolica il cui scioglimento non è letterario, ovviamente, ma culturale in senso antropologico, sopratutto relativamente alla fenomenologia, anzi al sincretismo del magico e del sacro. Questi elementi consentono di individuare e spiegare la venatura tra brut e neo-primitiva del mondo visionario di Bravi. Legittimano altresì i depositi informali del suo linguaggio irruento che plasma la materia pittorica e costruisce strutture sghembe, in equilibrio instabile, ansiogene per lo sguardo che ne secondi gli andamenti ondivaghi e l’orografia accidentata. Sono componenti formali e stilistiche che ricordo in aggiunta agli ascendenti maggiori espressionisti, di derivazione nordica, segnalati nel 2000 da Claudio Spadoni, e da Bravi declinati anche con una certa memoria della Scuola Romana. A ulteriore precisazione, nel testo citato Janus giustamente risaliva a più antiche premesse, interpretate con particolare tensione emotiva, quali scaturigini del mondo poetico di Bravi: «[...] Nella pittura di Onorio Bravi avviene questo fenomeno: c’è l’eco di un romanticismo rivisitato da una sensibilità moderna, c’è la ricerca dell’invisibile, del- l’inespresso, c’è il fascino dell’oscurità. C’è nella sua pittura un fermento ed un mutamento che a poco a poco compie il grande attraversamento della psiche, dal primordiale al complesso, che sfiora la morte [...] e approda alla risurrezione [...]».
Onorio Bravi ci invita a entrare, per attraversarli o comunque lasciarsi catturare nelle loro larghe e mobili tessiture, in “paesaggi” dalla morfologia sommossa al limite dello sconquasso, quasi sempre qualificati da insediamenti antropici, da case, evidenze architettoniche e aggregazioni urbane non riconducibili a precise topografie e culture, per quanto di evidente suggestione etnica (sappiamo quanta memoria del lungo soggiorno algerino, e dei climi e delle manifestazioni di quelle terre, abbia alimentato il suo immaginario), insomma ambienti e prospetti che si danno quali luoghi di eventi primordiali. Sono apparizioni e accadimenti misteriosi, aperti a una quantità di possibili soluzioni soggettive, in quanto non è preposta la sfinge agli enigmi che ci propongono i luoghi e le situazioni simulate come evocandole da un tempo retrodatato e sospeso, almeno rispetto alla storia. Eppure la traversata appare enigmatica al viaggiatore che si soffermi alla soglia dell’altrove da Bravi prefigurato. Intendo dire che l’enigma non nasconde, a mio avviso, una cifra, dunque la chiave di decodifica del messaggio sotteso.
Rimane sempre un margine di impenetrabile e di inesprimibile, nei luoghi ove Onorio Bravi mette in scena il teatro interiore delle sensazioni, emozioni, memorie, proiezioni che intessono la sua vita.

Nicola Micieli


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